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Horia Bernea e la Città Eterna
Mostra commemorativa di pittura

La Roma di Horia Bernea
di Anca Manolescu

Ringrazio gli organizzatori – l’Accademia di Romania e il dottore Stefano Ionescu – per l’invito di partecipare a questo avvenimento.
Ritengo che esso sia il modo più idoneo per riunirci intorno alla presenza di Horia Bernea. Uso la parola “presenza” e non “commemorazione” perché Horia Bernea – come artista, come intellettuale, come museografo e come credente – era troppo intenso, troppo vivo per essere evocato per mezzo della categoria del “passato” o del “ricordo”. Al Museo del Contadino Romeno, egli era per noi un esempio di creatività, di spontaneità preparata a lungo. Non concepiva dei progetti, ma sapeva aspettare in offensiva. Come nel caso della sua pittura, aveva una sua tecnica dell’attesa offensiva. Tastava un tema, faceva innumerevoli disegni, studiava il suo archivio di immagini, contemplava lungamente gli oggetti connessi al tema scelto e s’impregnava della sua sostanza fin quando la più convincente soluzione di esposizione gli si presentava e si imponeva. La sua raffinata capacità di osservare le cose lo aiutava a tenere lontano la banalità di qualsiasi cliché. Filtrate attraverso il suo sguardo, le cose – che si trattasse dell’arte, di un paesaggio, della struttura di una città o di un museo, della tradizione contadina oppure cristiana – si presentavano davanti ai nostri occhi con una freschezza sorprendente, incitante, coinvolgente.
Chi lo guardava capiva cosa vuol dire “buon umore”: cioè gioia di lavorare, l’allegro sforzo di comprendere le cose nella loro logica complessiva, dalla loro materialità all’insieme dei significati simbolici e spirituali che questa materialità incarnava. Horia Bernea poteva disegnare un paesaggio oppure abbozzare una sala museale mentre ti parlava, mentre ti spiegava cosa cercava, cosa intuiva, cosa scopriva attraverso il lavoro eseguito proprio in quel momento. Ti includeva nella sua ricerca e ti faceva iniziare, a tuo turno, una tua animata ricerca. Con lui s’imparava cosa signífica l’espressività spirituale del mondo sensibile, dell’oggetto, della materialità. Con lui s’imparava a muoversi liberamente e nello stesso tempo attentamente, con rispetto e nello stesso tempo con creatività nello spazio della tradizione sia artistica che cristiana. E Roma era per lui appunto il luogo dove questo atteggiamento aveva trionfato lungo tanti secoli. Era la prova più convincente, estesa a livello di un’intera città, che la tradizione possa essere vissuta al presente, che essa esiga l’audacia di trovare nuove modalità per vivere antiche cose originarie.
Horia Bernea lavorò anche qui, all’Accademia di Romania, nella città che si addiceva benissimo al suo tipo di metabolismo artistico e spirituale. Costituì anche qui un’intensa presenza modellatrice, che arrichiva chi gli stava vicino. Perciò ho scelto di parlare della „Roma di Horia Bernea”. In questa città egli si sentiva profondamente a casa. Della ricchezza quasi universale della città, la sua raffinata sensibilità sceglieva soprattutto una certa Roma: la Roma della tarda antichità, la Roma del primo milennio e della cristianità una e inseparata quale matrice della prima europeità. Nella struttura e nella materialità di questa Roma egli intravvedeva una forma di vita che sta in una maniera sorprendentemente naturale sotto la luce dell’ Origine. Una forma di vita e di fede che conferiva unità allo spazio romano e alle sue età così brillantemente diverse. Tuttavia, Horia Bernea non guardava la città con gli occhi dell’archeologo. Per lui, Roma era un modello attuale ed attualizzabile. Era un luogo che insegnava come si possono vivere, insieme alle grandi opere del passato, insieme all’esperienza dei predecessori, il principio e la libertà. Un principio e una libertà orientate verticalmente, la cui esperienza può essere fatta da ciascuna generazione, da ciascun essere umano. E anche se questa era una lettura molto personale – dovuta alla sua abilità di professionista delle arti visuali e di intellettuale credente –, non si può però dire che si trattava di un’interpretazione soggettiva. Non una fantasia personale era la sua immagine su Roma. Essa era piuttosto attinente alla sua penetrazione fino a livello di una realtà oggettiva, forse impercettibile per lo sguardo corrente, ma che il suo occhio non faceva che scoprire nel tessuto della città. A vedere le sue innumerevoli fotografie romane, a sentire i suoi commenti, non si poteva fare altro che aderire alla sua visione, costatarne la veracità, la capacità di leggere le cose nella loro trasparenza.
Il libro-album di dialoghi romani con Horia Bernea regalatoci da Teodor Baconsky ci mostra come vedeva Roma, come ci passeggiava, come l’assimilava. Ci vedeva prima di tutto una lezione sulla materialità. Nel colore pesante, di sangue coagulato, delle mura romane o nello splendore robusto dei mosaici della capella di San Zeno della chiesa di Santa Prassede, egli vedeva quella materialità compiuta, carnosa, capace di dare un corpo adeguato alle cose dello spirito, di “agganciare lo Spirito”, secondo la sua espressione. Visto che il cristinesimo è una religione dell’incarnazione di Dio, diceva Horia Bernea, ci si aspetterebbe che il tema della materialità fosse un tema centrale a tutti i livelli della vita cristiana: teologico, esistenziale, artistico. Che tipo di materialità ha una creazione artistica riuscita, sia cristiana o appartenente ad un’altra tradizione spirituale? Ha appunto questa forte materialità capace di reggere la maestà del non creato, di captarla, di darle un’espressione concreta, di rénderne percettibile la radiazione. Ma nello stesso tempo si tratta di una materialità che, seppure densa, supera se stessa e suggerisce il movimento liberatore dello Spirito. Esistono nel suddetto volume immagini di cui Horia Bernea parlava spesso: sarcofagi o lapidi di pietra pesante, su cui una scrittura paleocristiana soltanto apparentemente maldestra e non curata ha impresso pochissime lettere, come se la condizione dell’uomo che vive in questo mondo fosse stata percepita come acutamente passeggera e preparata per lo slancio verso la semplicità dell’Origine celeste. E questa materialità paradossale, densa eppure capace di significare l’estrema semplicità, Horia Bernea la scopriva meravigliosamente realizzata nelle pitture romane del III e del IV periodo, a Oplontis oppure a Pompei: superfici dal colore forte, omogeneo, su cui compaiono piccole figure di un realismo affascinantemente fresco. Per quanto riguarda le dette figure, egli parlava di una “scienza del vuoto”. Un vuoto che suggerisce la densità di un’unità che trascende la diversità del mondo.
Secondo lui, una creazione aveva valore se realizzata in tal modo che rendesse una tale semplicità, se i suoi elementi venivano articolati secondo un ordine discreto, che le conferiva nello stesso tempo libertà e un’unità superiore. Ecco perché rifiutava certi lavori rinascimentali o barocchi, quali i marmi e gli affreschi della Chiesa del Gesù, dove una materialità monotona o spettrale faceva turbinare ammassi di contorni complicati, privi di una forma unificatrice dominante. Ciò che amava nella struttura di Roma era appunto la sua profonda coerenza non esplícita, ma che riusciva a modellare tutto. Essa inglobava armoniosamente il sontuoso palazzo e le rovine, il giardino opulento e un modesto ingresso improvvisato di lamiera... A Roma, l’accostamento di queste differenze non faceva altro che amplificare lo spettacolo di una misteriosa coerenza altrettanto libera e sorprendente come quella di un organismo, come quella dell’organico.

„Quello che ho cercato di fare al Museo del Contadino”, diceva Horia Bernea, „è una sorta di marchio che suggerisca uno stato ideale, una specie di síntesi di questo tipo di vissuto: la semplicità di una tradizione, una decontrazione contenuta, controllata – se accettiamo tali accostamenti di termini – da cui appunto nasce la bellezza... Il vivo della vita, la legge della semplicità...”

Roma era uno dei luoghi emblematici per l’organicità della tradizione che Horia Bernea tentava di esprimere. “Roma è un museo vivo in cui si vive”, soleva dire.
Finalmente, era sempre qui che si manifestava in abbondanza un altro tema che lo preoccupava: la stratigrafia della tradizione, gli strati culturali che si sovrappongono l’uno sopra l’altro; ciascuno di essi si nutre di quelli anteriori, li riformula, li fa trasparire con la loro vecchiezza, ne conserva lo spirito o il vestigio. Al Museo del Contadino, egli aveva immaginato una modalità di esposizione che rendesse questo tipo di “conservazione attraverso la sovrapposizione”, questo modo di perpetuarsi della tradizione: cioè le tavole-vetrine, dove pezzi di preziosi ricami riccamente lavorati venívano messi in un mósaico che ricordava il ciclo dei “Pavimenti” del pittore. Attraverso entrambi, egli indaga il tema delle sovrapposizioni di cui parlava il suo amico, il filosofo Andrei Plesu nel 2001, al lancio del volume Roma. Caput Mundi. Lo cito:

„Per Horia Bernea, Roma è un immenso palinsesto. Si diverte a osservare e a commentare gli strati percettibili in tutti i monumenti, i paesaggi, gli oggetti della città. Tutto è una stratificazione di episodi e di stili diversi, di soluzioni disinvolte che stanno bene insieme, la cui coerenza è data appunto dal genio unificatore del Mediterraneo. Per lui questo tema era diventato anche un problema tecnico. Il modo in cui costruiva il suo spazio dipinto, il modo in cui mettéva il colore sulla tela erano basati su un’intera esperienza e su una teoria degli strati e delle sovrapposizioni. Erano queste a rendere preziose le immagini, e non il colore applicato direttamente e abbondantemente sulla tela.”

La densa materialità che si addiceva alle cose spirituali non era quindi una materialità quantitativamente piena e consistente. Poteva essere una materialità molto delicata, come quella di un ricamo o dei suoi “Pavimenti”. La sua densità era conferità dalla “profondità” degli strati che la componévano, dal continuo sforzo di perfezionarne la semplicità. Del lussureggiante palinsesto di Roma, Horia Bernea ricordava in fin dei conti l’immagine di un’incantevole semplicità:

„Ci sono alcuni posti così belli da “farti male”, da farti provare una sensazione di dolore. Angoli anónimi trovati per caso: per una strada qualsiasi si può vedere un intónaco ocra o di un rosso intenso, su cui pende un fascio o un mazzo di fiori con un «tugurio», una specie di «casotto» su pilastri; accanto ci sono una statua e una bancarella con tre pentole. Questo miscuglio stupefacente si trova sotto un cielo o in una luce sfumata o al contrario molto forte, che mette in risalto i contorni degli immensi pini... È questo forse il mondo del Mediterraneo”.

Gli stessi pini che si stagliano nella luce li guardava Horia Bernea dalla finestra del suo studio presso l’Accademia di Romania, dove lavorò e dove ci riuniamo intorno a lui con la presente mostra.

Traduzione a cura di Corina Anton

 
 
 
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